Cerca

Il caso

Delitto di Cogne, il mistero senza fine della morte di Samuele Lorenzi. Quando la cronaca si trasforma in spettacolo

Giuseppe Silvestri

23 Luglio 2025, 20:11

Delitto di Cogne

La villetta della tragedia a Cogne, nella frazione di Montroz

Quella mattina a Cogne, in Valle d'Aosta, il silenzio fu spezzato da una crudeltà indicibile. Alle 8:28 del 30 gennaio 2002, nella frazione di Montroz, una telefonata al 118 segnò l'inizio di un dramma. Una donna disperata parlava di vomito di sangue del suo bambino, ma il vero orrore era prigioniero tra le mura della villetta: il corpo del piccolo Samuele Lorenzi, tre anni, giaceva nel letto dei genitori, devastato da almeno diciassette colpi alla testa, inferti con una brutalità cieca con un oggetto contundente mai ritrovato. Le microtracce di rame rinvenute sul cranio suggerirono poi una tazza ornamentale o un mestolo, ma non si giunse mai a certezza. Non fu una fatalità, non fu un incidente, non fu un animale: fu un delitto che spezzò la vita di un bambino.


La famosa puntata di Porta a Porta con i genitore di Samuele Lorenzi


E le indagini, anziché chiudere il caso e individuare subito il colpevole, lo trasformarono in un mosaico di ombre e contraddizioni. Dal primo giorno la madre di Samuele, Annamaria Franzoni, divenne la figura centrale dell'inchiesta: i carabinieri scoprirono tracce ematiche — sangue del piccolo — sul suo pigiama e sulle ciabatte trovate in casa quella mattina. L'esito delle analisi con luminol fu netto: le macchie non erano passive, bensì compatibili con schizzi attivi da ferita inferta mentre il pigiama era indossato. L'assenza di segni di scasso, la mancanza dell'arma e di impronte o tracce estranee, portarono la giurisprudenza a escludere l'ingresso di qualcuno nella villetta. La Corte di Cassazione fu lapidaria: "Si può escludere oltre ogni ragionevole dubbio che ad agire sia stato un estraneo…".


Annamaria Franzoni ospite di Porta a Porta

Ma l'accusa nei confronti della donna non si affidò solo al sangue. Intercettazioni ambientali — conversazioni registrate tra familiari e vicini — misero in luce frasi inquietanti. Anche il comportamento della Franzoni fu giudicato ambiguo: chiese al marito, "Facciamo un altro figlio?", lanciando ombre su lucidità, emotività e possibile rimozione psicologica del delitto.


I periti al lavoro nella villetta dell'omicidio

Nel luglio 2004, il tribunale di Aosta, con rito abbreviato, condannò Franzoni a 30 anni per omicidio volontario aggravato. Una pena pesante basata sul quadro indiziario complessivo. Ma il processo non finì lì. Nel 2007, la Corte di Appello di Torino ridusse la pena a 16 anni, riconoscendo attenuanti generiche: fu classificato come un delitto d'impeto e non un gesto lucidamente premeditato, anche grazie alle perizie psichiatriche. La Cassazione nel maggio 2008 confermò definitivamente la pena. Franzoni, tra carcere e domiciliari, lasciò la detenzione nel 2014 e nel 2019 concluse il programma di reinserimento. Sempre proclamandosi innocente di ciò che accadde quella mattina nella villetta.

Annamaria Franzoni, nata il 23 agosto 1971 a San Benedetto Val di Sambro, ha ricostruito una vita lontano dai riflettori, nel silenzio e nell'anonimato volontario. Vive in una frazione dell'Appennino bolognese, dove con il marito Stefano Lorenzi, perito elettrotecnico, sposo fedele e suo incrollabile sostenitore, gestisce un agriturismo. Qui si è ritirata, trovando rifugio nella quotidianità e nel lavoro manuale, per evitare il clamore mediatico che l'ha travolta per anni. Fu uno dei primi casi di cronaca che divennero tormentone televisivo e giornalistico, facendo rimbalzare ogni giorno particolari, opinioni, punti di vista, possibili svolte e cronache dettagliate. Franzoni oggi ha due figli. Davide, nato nel 1995, ha quasi trent'anni, e Gioele, venuto alla luce nel gennaio 2003, poco dopo la tragedia. Sono cresciuti all'ombra del delitto oscuro, immersi in un silenzio protettivo. Davide è adulto, autonomo, ma serba la ferita familiare; Gioele è il "nato dopo", testimone e simbolo del tentativo di ricostruzione della madre.

La villetta di Cogne non è stata venduta all'asta: nel 2020 è partita una procedura per saldare un debito con l'avvocato Taormina, che reclamava una parcella legale non pagata. Ma l'asta fu scongiurata quando, alla fine, i Lorenzi versarono quanto dovuto, conservando la casa come rifugio familiare, luogo simbolico di silenziosa resistenza alla tragedia. A distanza di oltre due decenni, il delitto di Cogne resta un enigma senza movente: perché uccidere Samuele non è mai stato chiarito. Nemmeno l'arma è stata trovata: il corpo contundente rimane un fantasma, simbolo di un crimine che sfugge alla comprensione. Molti esperti hanno evocato il concetto di red–out — stato dissociativo di rabbia estrema — come spiegazione psichiatrica compatibile con il possibile comportamento di Franzoni: la donna avrebbe agito in un blackout cognitivo, incapace di testimoniare cosa avvenne in quei minuti fatali. Ma è bene ricordarlo: lei ha sempre proclamato la sua innocenza. Le analisi del bloodstain pattern hanno rivelato, tra l'altro, incongruenze: alcune macchie tonde sul pigiama non corrispondono alla logica dell'angolo di impatto di uno schizzo. In un processo indiziario così serrato, l'accusa fu costretta a costruire un quadro su elementi tecnici e comportamentali, ma resta il limite dell'assenza di prove decisive come confessioni o testimoni esterni. Il caso Cogne non fu solo un processo: fu un evento mediatico senza precedenti. Come già scritto, programmi televisivi, talk show, graphic narratives, talk radio e siti di gossip trasformarono la vicenda in uno spettacolo.

Franzoni divenne l'icona di un dolore collettivo, ma anche vittima di una narrazione segnata da spettacolarizzazione e polarizzazione: "colpevolisti" da un lato, "innocentisti" dall'altro. Lei provò a gestire la difesa mediatica con apparizioni televisive (Costanzo Show, Porta a Porta, Chi l'ha visto?), ma ogni parola le rimbalzava addosso come un boomerang. Il risultato è un lascito: storia di dolore estremo, assenza di chiarezza, condivisione mediatica di un lutto privato. Una giovane mamma dominata da accuse, una pena ridotta da 30 a 16 anni. Una donna oggi libera, ma imprigionata per sempre nell'eco di un fatto che non si dimentica e a cui vengono ancora dedicate trasmissioni televisive ed approfondimenti. Ancora oggi, chi ascolta la storia la sente come una lezione sul potere oscuro della cronaca, sulla fragilità del sistema giudiziario nell'affrontare casi senza prove decisive e sulla brutalità di un atto inspiegabile che ha condizionato una famiglia intera. E non solo.

Newsletter Iscriviti ora
Riceverai gratuitamente via email le nostre ultime notizie per rimanere sempre aggiornato

*Iscrivendoti alla newsletter dichiari di aver letto e accettato le nostre Privacy Policy